mercoledì 8 giugno 2011

Pirandello e il suo pensiero




Pirandello, Luigi (Agrigento 1867 - Roma 1936), è un scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani contemporanei che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo.





VITA:

Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 presso Girgenti (Agrigento), da un’agiata famiglia borghese.

Dopo gli studi liceali si iscrisse all’Università di Palermo, poi alla facoltà di lettere dell’Università di Roma da cui si trasferì all’Università di Bonn in Germania.

L’esperienza degli studi in Germania fu molto importante perché lo mise in contatto con la cultura tedesca e sopratutto con gli scrittori romantici, che ebbero su di lui una forte influenza sulle sue opere e sulle sue teorie riguardanti l’umorismo.

Si trasferì a Roma per dedicarsi interamente alla letteratura, in questa città strinse legame con Ugo Flares e a Luigi Capuana.

1893 scrive il suo primo romanzo: L’ESCLUSA.

Nel 1897 diventa professore all’istituto superiore del Magistero a Roma e nel frattempo pubblica articoli e saggi su varie riviste, tra cui il Marzocco.

Nel 1896 scrive la sua prima commedia: IL NIBBIO, ribattezza come SE NON COSI’ nel 1915.

Nel 1903 un allagamento alla miniera di zolfo, in cui era investito tutto il patrimonio della famiglia, provocò il dissesto economico della famiglia. Il fatto ebbe conseguenze drammatiche nella vita dell’autore: alla notizia la moglie, che era di fragile equilibro psicologico, sprofondò nella follia che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Nacque così in Pirandello la concezione dell’istituto famigliare come “trappola” che imprigiona e soffoca l’uomo.

La sua declassazione, da una condizione di borghese agiato ad una classe inferiore, gli fornì lo spunto per rappresentare il grigiore soffocante della vita del piccolo-borghese, sopratutto il rancore e la sofferenza per il meccanismo sociale alienante.

Durante la guerra il figlio Stefano, partito volontario, fu fatto prigioniero dagli austriaci e il padre si adoperò con ogni mezzo, ma invano, per la sua liberazione.

In conseguenza del fatto la malattia mentale della moglie si aggravò tanto che lo scrittore è costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove la donna restò fino alla morte.

Dal 1920 il teatro di Pirandello cominciò a conoscere il successo di pubblico.

I drammi Pirandeliani nel corso degli anni ‘20 e ’30 furono conosciuti e rappresentati in tutto il mondo.

Si legò sentimentalmente, ma in modo platonico, ad una giovane attrice della sua compagnia, Marta Abba.

Nel 1934 gli venne assegnato il Premio Nobel per la letteratura a consacrazione della sua fama mondiale.
Pirandello si ammalò di Polmonite e morì il 10 dicembre 1936 a Roma.


IL VITALISMO

Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, che è affine a quella di varie filosofie contemporanee la realtà tutta è <<vita>>, <<perpetuo movimento vitale>>, intenso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all'altro, <<flusso continuo, incandescente, indistinto>>, come lo scorrere di un magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca da questo flusso, e assume <<forma>> distinta e individuale, si rapprende, si irrigidisce, comincia, secondo Pirandello, a <<morire>>.

Ma noi tendiamo a cristallizzarci in forme individuali e a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un'illusione e scaturisce solo dal sentimento soggettivo che noi abbiamo del mondo, che proietta intorno a noi come un cerchio di luce e ci separa fittizialmente dal resto della vita, che resta al buio.

Non solo noi stessi, però, ci fissiamo in una <<forma>>, anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare ci danno determinate <<forme>>.

Noi crediamo di essere <<uno>> per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ad esempio un individuo può crearsi di se stesso l'immagine gratificante dell'onesto lavoratore, del buon padre di famiglia, mentre gli altri magari lo fissano senza rimedio nel ruolo dell'ambizioso senza scrupoli o dell'adultero. Ciascuna di queste <<forme>> è una costruzione fittizia, una<<maschera>> che noi stessi ci imponiamo o che ci impone il contesto sociale.

La crisi dell'idea di identità e di persona risente evidentemente dei grandi processi in atto nella realtà contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio alla frantumazione e alla negazione dell'individuo. L'instaurarsi del capitale monopolistico, che annulla l'iniziativa individuale e nega la persona in grandi apparati produttivi anonimi; l'espandersi della grande industria e dell'uso delle macchine, che meccanizzano l'esistenza dell'uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, priva di relazioni e priva di coscienza; la creazione di sterminati apparati burocratici, che sortiscono effetti analoghi, annullando l'individuo in quanto tale, cancellando la sua interiorità e riducendolo alla sua pura funzione esteriore; il formarsi delle grandi metropoli moderne, in cui l'uomo smarrisce il legame personale cogli altri e diviene una particella isolata e alienata nella folla anonima. L'idea classica dell'individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, dalla personalità inconfondibile e coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia ottocentesca nel suo momento di ascesa, ora tramonta: in una prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi progressivamente anche questa finisce per sfaldarsi; l'individuo non conta più, l'io si indebolisce perde la sua identità, si frantuma in una serie di stati incoerenti.

L'avvertire di non essere <<nessuno>> , l'impossibilità di consistere in un'identità provoca angoscia ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l'individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in <<forme>> in cui non può riconoscersi. L'uomo si <<vede vivere>>, si esamina dall'esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua <<maschera>> la sua <<parte>>, e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste<<forme>> sono sentite come una <<trappola>>, come un <<carcere>> in cui l'individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali, al di sotto della civiltà e delle buone maniere.

La società gli appare come un'<<enorme pupazzata>>, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente l'uomo dalla <<vita>> lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte, anche se egli apparentemente continua a vivere.

L'istituto in cui si manifesta per eccellenza la <<trappola>> della <<forma>> che imprigiona l'uomo, separandolo dall'immediatezza della <<vita>>, è la famiglia.

Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell'ambiente famigliare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita degli affetti viscerali di oscuri.

L'altra <<trappola>> è quella economica, costituita dalla condizione sociale e del lavoro, almeno a livello piccolo borghese: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di un'organizzazione gerarchica oppressiva.

L'unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale: nell'immaginazione che trasporta verso un <<altrove>> fantastico, come per l'impiegato Belluca, oppure nella follia,che è lo strumento di contestazione per eccellenza, in Pirandello, delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza. Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell'opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il <<forestiere della vita>>, colui che <<ha capito il giuoco>>, ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua <<parte>> osservando gli uomini imprigionati dalla <<trappola>> con un atteggiamento <<umoristico>> di irrisione e pietà.
 
 
IL RELATIVISMO CONOSCITIVO


Oltre che sulla visione della società, dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo. Se la realtà è magmatica, in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti, onnicomprensivi. Ogni immagine globale che pretenda di sistemarla organicamente non è che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme, polivalente, non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo; al contrario le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un'inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com'è per lui, e non sa né può sapere come sia per gli altri, proietta nelle parole che pronuncia il suo mondo soggettivo, che gli altri non possono indovinare. Questa incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'individuo che si scopre <<nessuno>>, mette ulteriormente in crisi la possibilità di rapporti sociali e contribuisce a svelarne il carattere convenzionale e fittizio.

Il relativismo conoscitivo, il soggettivismo assoluto collegano Pirandello a quel clima culturale europeo del primo Novecento in cui si consuma la crisi delle certezze positivistiche, della fiducia in una conoscenza oggettiva della realtà mediante gli strumenti della razionalità scientifica. La posizione di Pirandello, sia per quanto riguarda queste crisi gnoseologiche, sia per il suo vitalismo irrazionalistico, viene quindi abitualmente fatta rientrare nell'ambito di quello che si suole definire Decadentismo.

Alla base del Decadentismo, così intenso, vi è una condizione spirituale sostanzialmente mistica, imperniata sulla fiducia in un ordine misterioso che unisce tutta la realtà, compreso il soggetto umano, in una fitta rete di <<corrispondenze>>, in un sistema di analogie universali che collegano io e mondo in una totalità univocamente interpretabile; per cui si può dare l'<<epifania>> dell'assoluto:in momenti privilegiati, l'Essere può rivelare, in forme ineffabili, il suo senso riposto; uno slancio di partecipazione mistica può portare il soggetto nel cuore della realtà.

Per Pirandello invece, un'essenza ultima non si dà più, per cui non sono più possibili miracolose epifanie, rivelatrici di un nucleo nascosto dell'Essere. La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Il particolare non vibra della vita universale, ma è semplicemente una particella isolata, perché un Tutto non esiste. Lungi dal cercare l'identificazione con l'essenza, non resta che prendere atto dell'incoerenza e della mancanza di senso del reale. Questa radicale apertura della visione del mondo,questa crisi della totalità collocano Pirandello già oltre il Decadentismo, in un clima tipicamente novecentesco.

Il Decadentismo, come già il Romanticismo, nella sua fuga da una realtà storica negativa, che portava alla chiusura gelosa nella soggettività, poneva l'io al centro del mondo, o meglio, identificava sostanzialmente il mondo con l'io. Se per il Romanticismo e il Decadentismo l'interiorità era il centro del reale, sede dell'esperienza originaria dell'Essere, ora questo centro scompare, il soggetto da entità assoluta diviene <<nessuno>>.


LA POETICA: L’umorismo


Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono anche la concezione dell'arte e la poetica di Pirandello. L'umorismo,che risale al 1908. Si tratta di un testo chiave, l'opera d'arte, secondo Pirandello, nasce <<dal libero movimento della vita interiore>>; la riflessione, al momento della concezione, resta invisibile, è quasi una forma del sentimento.

La riflessione non si nasconde, non è una forma del sentimento, ma si pone dinanzi ad esso come un giudice, lo analizza e lo scompone. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo <<avvertimento del contrario>> è il comico. Ma se interviene la riflessione, e suggerisce che quella signora soffre a prepararsi così e lo fa solo nell'illusione di poter trattenere l'amore del marito più giovane, non posso più solo ridere: dall'<<avvertimento del contrario>>, cioè dal comico, passo al <<sentimento del contrario>>, cioè all'atteggiamento umoristico. La riflessione nell'arte umoristica coglie così il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, premette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. Se coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, ne individua anche il fondo dolente, di umana sofferenza, e lo guarda con pietà, o viceversa, se si trova di fronte al serio e la tragico, non può evitare di fare emergere anche il ridicolo. In una realtà multiforme e polivalente, tragica e comica vanno sempre insieme. Il comico è come l'ombra che non può mai essere disgiunta dal corpo del tragico.

Nel saggio, Pirandello afferma che l'umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la definizione che egli ne propone si attaglia perfettamente all'arte contemporanea, nata dalla grande crisi novecentesca.

E un’arte <<fuori di chiave>>, come la definisce Pirandello con una metafora musicale, cioè disarmonica e piena di continue dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto, in cui lo scrittore da un lato crea e dall'alto critica e scompagina ciò che ha creato. E un'arte che non costruisce immagini armoniche, unitarie e ordinate del mondo, ma tende a scomporre, a disgregare, a fare emergere stridori, innocenze e contrasti.



Il fu Mattia Pascal

  
Il fu Mattia Pascal è la più famosa tra le opere narrative dello scrittore siciliano, Luigi Pirandello, la prima che gli assicurò il successo letterario in Italia e all’estero, fu pubblicato nel 1904.

Mattia Pascal vive in un immaginario paese ligure, Miragno, dove il padre, che si era arricchito con i traffici marittimi e il gioco d'azzardo, ha lasciato in eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna.
A gestire l'intero patrimonio è un avido e disonesto amministratore, Batta Malagna, la cui nipote, Romilda, viene messa incinta da Mattia dopo che non è riuscito a farla sposare all'amico Pomino.

Mattia viene costretto a sposare Romilda e a convivere con la suocera vedova che non manca di manifestare il suo disprezzo per il genero che considera inetto.
Tramite l'amico Pomino, Mattia ottiene un lavoro come bibliotecario ma dopo un po' di tempo, infelice per il lavoro che trova umiliante e per il matrimonio che si è rivelato sbagliato, decide di fuggire da Miragno e di tentare l'avventura in Francia.

I rapporti dei personaggi con Mattia Pascal a Miragno.

Arrivato a Montecarlo e fermatosi a giocare alla roulette, in seguito ad una serie di vincite fortunate, diventa ricco. Deciso a ritornare a casa per riscattare la sua proprietà e vendicarsi dei soprusi della suocera, un altro fatto muta il suo destino.
Mentre è in treno legge per caso su un giornale che a Miragno è stato ritrovato nella roggia di un mulino il cadavere di Mattia Pascal.

Dapprima, sconvolto comprende presto che, credendolo ormai tutti morto, può crearsi un'altra vita. Così, con il nome di Adriano Meis, inizia a viaggiare prima in Italia e poi all'estero, fintantoché decide di stabilirsi a Roma in una camera ammobiliata sul Tevere.

Si innamora, ricambiato, di Adriana, la dolce e mite figlia del padrone di casa, Anselmo Paleari, e sogna di sposarla e di vivere un'altra vita, ma presto si rende conto che la sua esistenza è fittizia. Infatti, non essendo registrato all'anagrafe, è come se non esistesse e pertanto non può sposare Adriana, non può denunciare il furto subito da Terenzio Papiano, un losco individuo che lo ha raggirato, e non può fare tutte quelle cose della vita quotidiana che necessitano di un’identità.

I rapporti dei personaggi con Adriano Meis a Roma

Finge così un suicidio e, lasciato il suo bastone e il suo cappello vicino a un ponte del Tevere, ritorna a Miragno come Mattia Pascal.
Sono intanto trascorsi due anni e arrivato al paese, Mattia viene a sapere che la moglie si è risposata con Pomino e ha avuto una bambina. Si ritira così dalla vita e trascorre le sue giornate nella biblioteca polverosa dove lavorava in precedenza a scrivere la sua storia e ogni tanto si reca al cimitero per portare sulla sua tomba una corona di fiori.

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